Dalla mia esperienza clinica ormai più che decennale ho imparato a capire che ogni forma di disagio dell’essere umano nasce da una scarsa conoscenza del linguaggio delle emozioni. Potrei dire che quasi qualsiasi sintomo psichico nasce da qualche inceppamento della matrice emozionale. La manifestazione di comportamenti violenti non esula da questo discorso. Anzi, solitamente i cosiddetti ‘agiti’ avvengono là dove l’emozione negativa (es. una rabbia molto intensa) non arriva al pensiero perché non si è potuto costruire all’ interno della mente un ‘apparato per pensare’ come diceva Bion, un noto psicanalista nella seconda metà del ‘900. Bion pensava che questo apparato potesse essere costruito solo all’interno di una relazione significativa, quella con la madre. E’ la madre che aiuta il bambino a significare le sue emozioni e sensazioni fisiche: “Piangi forse perche’ hai fame?”; quindi è lei che gli permette di trasformare il disagio causato dai morsi della fame ad esempio in simbolo, la parola, accompagnato dal soddisfacimento del bisogno.
Freud credeva che la fiducia nella vita derivasse dall’esperienza della costanza d’oggetto, ovvero il seno materno che viene offerto ogni qual volta il bambino ne faccia richiesta. Bowlby diceva: “I piccoli dell’uomo sono preprogrammati per svilupparsi in modo socialmente cooperativo, che poi lo facciano o meno dipende in grande misura da come vengono trattati”. Da più parti, in ambito scientifico e psicologico, emerge sempre più la considerazione che la violenza sia un prodotto del trauma psicologico, e come vi sia uno stretto legame tra il trauma e la propensione a sviluppare relazioni interpersonali distruttive. Gli effetti della perdita e della deprivazione sono molto importanti nell’ insogenza del comportamento violento: la violenza può essere considerata quindi come il risultato di un fallimento nel fornire un adeguato accudimento, la conseguenza di un ‘attaccamento andato a male’.
Il comportamento violento può essere visto sia come espressione estrema della furia umana, dovuta a intollerabili ferite narcisistiche del Sé, sia come espressione del disturbo del sistema di attaccamento. La compulsione a ripetere il trauma è considerata di cruciale importanza nella comprensione delle origini traumatiche della violenza e si esamina la possibilità che le vittime divengano “dipendenti” dal trauma.
Quando si parla di comportamenti violenti si fa quindi riferimento ad una aggressività che rompe i confini e diventa pericolosa per se e per gli altri. Ma esiste un’aggressività sana?
In età prescolare l’aggressività e l’ostilità sono i mezzi che servono al bambino per imparare a distinguere il sé dagli altri, a capire le regole sociali ed a sperimentare le prime forme d’adattamento (l’apice tra i 18 ed i 24 mesi). Generalmente i segnali che potrebbero costituire un indice importante nell’evoluzione di certi comportamenti disadattivi proprio individuabili in età scolare sono:
- Opposizione alle regole degli adulti
- Difficoltà a rispettare le regole nei giochi o ad aspettare il proprio turno
- Aggressività eterodiretta e autodiretta
- Indifferenza per il male provocato a cose e/o persone
- Eccessi d’ira e inconsolabilità di fronte a obblighi e/o divieti
Pensando al bullismo le stime indicano una certa incidenza in una fascia d’età compresa tra 7/8 anni e tra tra 14/16. La dinamica psichica vittima-carnefice propria del fenomeno ‘bullismo’ si ripresenta in età adulta sotto forma di violenza etero e/o auto diretta.
Uno degli obiettivi importanti e ambiziosi che si prefigge “Resource”, l’Associazione no profit che ho fondato circa un anno fa con altri colleghi psicoterapeuti, è di portare formazione nelle scuole di ogni ordine e grado al fine di prevenire i comportamenti violenti che potrebbero essere agiti in età adulta. Così ben noto purtroppo, dalle cronache così frequenti, il femminicidio in questi ultimi anni è divenuto un fenomeno veramente dilagante.
Perché la prevenzione deve partire dalla scuola?
Come dice Platone nella Repubblica “Datemi un bambino fino ai 7 anni e vi mostrerò l’uomo”. Si capisce come il lavoro di prevenzione debba necessariamente partire dal basso. Si intende lavorare già dalla scuola dell’infanzia fino alle scuole superiori con l’obiettivo di diminuire notevolmente la probabilità di sviluppare comportamenti a rischio di violenza in adolescenza e in età adulta. Per fare tutto ciò naturalmente è necessaria la rete dei professionisti, principalmente le tre agenzie sociali chiamate ad assolvere questo compito così importante sono: la famiglia, gli insegnanti e professionisti altamente specializzati. Forse, come dice Massimo Recalcati nel suo ultimo libro “L’ora di lezione” la scuola deve ritrovare il piacere di essere una importante agenzia sociale, in cui gli insegnanti siano stimolati a ritrovare la passione per la propria materia e attenti a costruire legami relazionali nuovi con i propri allievi.
La scuola deve poter essere riconosciuta come luogo di formazione ma anche di promozione del benessere sociale e luogo promotore di esperienze di prevenzione. Deve uscire fuori dal pantano in cui si ritrova a causa dei cambiamenti sociali che si sono verificati in questi ultimi anni. Quale migliore occasione potrebbe essere questa?
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