C’è chi divora, chi scarta nel piatto sempre qualcosa, chi preferisce la pasta, chi adora la carne e chi muore per i dolci: le nostre abitudini a tavola rappresentano un test di personalità che in molti, durante il trascorrere dei secoli, hanno cercato di approfondire.
Spesso però le persone lamentano un rapporto sbagliato col cibo che non riescono a controllare. Tipicamente la frase che si sente dire è: “E’ più forte di me” oppure: “Non riesco a trattenermi dal mangiare” o “Devo assolutamente controllare le calorie di ciò che mangio”. Non vi sono solo le patologie ‘eclatanti’ come l’anoressia e la bulimia, ma un ventaglio di atteggiamenti e comportamenti che lasciano intravedere una certa difficoltà nel rapporto con il cibo. Dal controllo ossessivo di ciò che si mangia, a tentativi di perdere peso che porta a seguire tra le più svariate diete che poi vedono la ripresa di tutti i chili che a fatica si era riusciti a perdere, al ‘divorare’ compulsivo i cui risvolti spesso sono i sensi di colpa. Per aiutare a comprendere da dove potrebbero nascere queste difficoltà nel comportamento alimentare propongo qui la rilettura di alcuni casi clinici che danno un’idea della complessità del fenomeno.
Il sintomo, ovvero la spinta compulsiva a mangiare o viceversa l’astenersi dal cibo o il controllo ossessivo di ciò che si mangia, è il simbolo di un conflitto interiore che a certi livelli può disturbare o addirittura invalidare il normale corso della vita e come tale può essere superato attraverso la psicoterapia.
Casi clinici
Al fine di tutelare i miei pazienti racconterò di loro utilizzando nomi inventati.
La prima di cui descrivo la storia è Stefania, 40 anni. Mi contatta perchè possa aiutarla nel difficile rapporto con il cibo. Sente di aver avuto da sempre un atteggiamento ambivalente nei confronti di sè, del suo corpo e del cibo. Si è spesso paragonata ad una fisarmonica, ingrassando e dimagrendo a periodi alterni e ora che inizia un nuovo periodo della sua vita (ritorna con il marito dopo un periodo di separazione) riprende tutti i chili che aveva precedentemente perduto. Stefania è primogenita di quattro fratelli. Cresciuta in una famiglia apparentemente patriarcale (in realtà è la madre che ‘porta i pantaloni’), ha sempre sofferto delle differenze che venivano fatte tra lei, unica figlia femmina, e i suoi fratelli maschi. Lamenta di non aver mai goduto della stessa libertà, invidiandoli parecchio per la loro possibilità di espressione e di scelte. Inoltre la madre, impiegata come vicedirettrice di una importante azienda, le ha sempre inviato messaggi contraddittori e ambivalenti, ad esempio: “non puoi essere libera in quanto femmina, però se metti i pantaloni…”. Il padre chiuso caratterialmente e burbero è sempre stato distante dalla figlia, anzi, con l’inizio della pubertà, forse per l’imbarazzo di fronte al corpo in crescita di Stefania, se ne allontana definitivamente. Stefania patisce molto questo distacco, soprattutto perchè da bambina si sentiva veramente una cosa unica col padre. Inoltre, in qualche modo anche il padre ha trasmesso messaggi contrastanti: quando in adolescenza ingrassava troppo non risparmiava commenti negativi, ma anche quando dimagriva sembrava non andar bene. “Insomma”, diceva tra sè: “non vado bene nè quando ingrasso nè quando dimagrisco!”. Stefania ha interiorizzato tutte quelle ambivalenze che i genitori le hanno inconsciamente trasmesso, forse come loro stessi conflitti non risolti. Abbiamo iniziato una terapia intensiva con una frequenza di due volte a settimana e lentamente abbiamo scardinato quelle che erano diventate vere e proprie ‘fissazioni’; i conflitti rispetto al suo sè e al suo corpo si erano come cristallizzati. La svolta decisiva per Stefania avviene quando si rende conto che gran parte delle sue problematiche relative all’alimentazione dipendono in realtà da percezioni distorte del sè dei suoi genitori. Come a dire che le difficoltà della percezione del corpo e dell’identità di genere appartengono originariamente ai suoi genitori. Forse mamma e papà avevano proiettato sulla ragazza tutti i dubbi e le ambivalenze di una identità di genere in parte a loro stessi sconosciuta e fonte di conflitti interni profondi, troppo difficili da riconoscere. Sciolto il nodo che la teneva legata al conflitto Stefania inizia a vedersi non solo più come figlia di sua madre e di suo padre, ma come una persona ‘nuova’ in grado di guardarsi con nuovi occhi. Il conflitto interiore, che si inscenava con abbuffate alternate a periodi di digiuno, ora non ha più motivo di esistere una volta disvelato il suo significato. Finalmente Stefania è libera dalle catene dei suoi conflitti e riesce a tenere un equilibrio nella relazione con il cibo.
Ci sono casi in cui invece il sovrappeso potrebbe essere una difesa. Mi viene in mente un’altra paziente, Sara, che, una volta sposata, identificandosi con il ruolo prima di moglie e poi di madre, ha creduto inconsciamente di dover sacrificare la sua femminilità, proprio come sua madre che viene da lei descritta come una donna sciatta, dedita alla famiglia, non curante di sè come donna, con grande spirito di sacrificio. Quindi Sara sposandosi è come se inconsciamente avesse dovuto assumere un ruolo simile a quello materno, da lei vissuto come frustrante e insoddisfacente, ma l’unico possibile. Durante la terapia Sara ha potuto prendere consapevolezza della dinamica identificatoria e conseguentemente prenderne le distanze. Ciò ha portato alla valorizzazione di sè e a lasciare il bisogno di difendere se stessa e i suoi desideri femminili dietro i chili di troppo.
E’ interessante notare come a volte i famosi chili in più, nonostante vengano lamentati dai pazienti, abbiano una loro funzionalità, come ad esempio prendere le distanze da se stessi e dagli altri, nascondersi, o viceversa fare in modo di essere visti. A questo proposito mi viene in mente l’esempio di Marco che periodicamente fa diete di dimagrimento, poi, una volta raggiunto l’obiettivo deve ritornare alla sua obesità perchè è solo attraverso la sensazione della pesantezza che ritrova se stesso. Marco è il quinto di cinque figli maschi. Probabilmente la madre dopo tutti questi maschi avrebbe desiderato tanto una bambina, invece è nato lui, un altro maschio, il più grosso di tutti e per di più podalico. Durante il percorso terapeutico emerge che Marco si deve essere sentito rifiutato alla nascita e questa sensazione ha segnato quella che si può definire la sua immagine fondamentale; è come se riuscisse a ritrovare se stesso solo nel rifiuto, per cui non riesce a reggere l’immagine di sè bella e piacente, deve tornare a quella ‘brutta’ e appesantita. Qui il lavoro terapeutico è ancora in corso in quanto il quadro diagnostico è particolarmente difficile da sanare a causa della ferita narcisistica troppo arcaica.
Gli esempi riportati lasciano intuire che spesso il bisogno di coprire e/o sparire, oppure coprire parti interne di sè (ad esempio nel caso di un’omosessualità latente, o di parti pulsionali represse) si manifesta attraverso atteggiamenti bulimici o anoressici. La psicoterapia disvelando il significato nascosto e inconscio dei suoi comportamenti fa sì che il paziente possa trasformare un atteggiamento avvertito come dissonante e a volte invalidante, in uno decisamente più salutare e soddisfacente.
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