È NORMALE CHE UN FIGLIO DI DIECI ANNI SI COMPORTI COME UN RAGAZZINO DI QUINDICI? E, D’ALTRO CANTO, A TRENT’ANNI NON È UN PO’ TARDI PER USCIRE DALL’ADOLESCENZA?
Pennellate veloci per dipingere l’identikit di ragazzi e ragazze contemporanei, figure dai contorni sfumati, delle quali si è perso l’inizio e la fine.
L’adolescenza, come categoria a sé, è un’invenzione relativamente recente. In altri tempi il passaggio dall’essere bambino all’essere adulto era sancito dai riti di passaggio e, in ogni caso, ai bambini non era concesso molto tempo, né per abituarsi all’idea dei cambiamenti, né per imparare il proprio ruolo nella società dei grandi.
È solo con l’inizio del XX secolo in Occidente che la categoria degli adolescenti è andata formandosi. I motivi sono numerosi, ma in generale si riconducono alla necessità di un periodo di formazione più lungo necessario per entrare nella società industrializzata, e in parte all’allungarsi dell’aspettativa di vita.
In questi pochi anni l’adolescenza ha subito ulteriori mutamenti. Rispetto al nostro vissuto, oggi comincia prima e sembra interminabile. Sicuramente non coincide più con il classico evolutivo che va dai 13 ai 19 anni, gli anni “teen”.
Non è raro che in quarta elementare si manifestino i prodromi della pubertà, così come tutti conosciamo le storie di figli magari laureati e lavoratori che continuano a vivere e comportarsi come i ragazzi che erano dieci anni prima.
Nuovi modelli di famiglia
In questa dilatazione dei tempi, ci interessa concentrarci sulla precocizzazione dell’adolescenza, una fase di passaggio molto veloce che spesso coglie impreparati i genitori. Non è facile gestire l’aggressività nuova dei nostri “bravi bambini un tempo tanto ubbidienti”, gli stessi bambini che adesso cercano una nuova, inaspettata e recalcitrante autonomia.
Se nuovi sono i nostri adolescenti, dobbiamo considerare che “nuovi” sono anche i genitori. Spesso non teniamo conto dell’evoluzione storica e sociale della società e perciò non comprendiamo o non riusciamo a dare il giusto significato ad atteggiamenti e comportamenti dei ragazzi che in prima battuta risultano imprevisti e incomprensibili.
Come è cambiata la famiglia? Fino alla generazione dei nostri genitori in media era composta da madre, padre e soprattutto da più figli, fratelli e sorelle. Difficilmente in questa famiglia ancestrale c’era un figlio unico e difficilmente si sentiva parlare di famiglie allargate. L’atteggiamento dei genitori spesso era inconsapevole, sia a riguardo della decisione di concepire un figlio, sia per quanto concerneva il ruolo genitoriale stesso. I bambini nascevano un po’ per caso.
La madre, regina del focolare, oggi è approdata a una più ampia (ma non completa!) realizzazione lavorativa, che la porta spesso fuori dalle mura domestiche, determinando da un lato una grande soddisfazione per la realizzazione di sé, ma dall’altro gli immancabili sensi di colpa legati all’assenza da casa.
Il padre, da figura spesso assente e delegante alla moglie, si è trasformato in un complice empatico. La figura paterna che gettava basi e regole di una volta non è più così centrale. Nella nostra esperienza, la legge paterna passava probabilmente attraverso la mediazione materna, con frasi del tipo: “se non la smetti lo dico a tuo padre”. Oggi parrebbe persino offensivo caricare la figura del padre di una simile autorità incontrastata.
Da Edipo all’affetto
Nello sviluppo psichico del bambino cresciuto all’interno del modello familiare più antico, quello che probabilmente abbiamo sperimentato noi odierni genitori, erano determinanti due fattori: la paura e il confronto.
La paura era intesa come timore di perdere l’affetto dei genitori. Di fronte a un misfatto, il bambino sviluppava sensi di colpa e conflitti interni con conseguenti tentativi di ripararvi.
Il confronto a sua volta si viveva prevalentemente con fratelli e sorelle e determinava da un lato una maggiore responsabilizzazione, dall’altro la perdita della posizione centrale e narcisistica.
Seguendo questo schema, la formazione dei gruppi giovanili (la “compagnia degli amici”) rifletteva la ricerca di un capo (come il padre) cui accodarsi e sottomettersi con altri compagni-fratelli.
La legge era quella del “padre normativo” e la famiglia assumeva una forte valenza etica, dove la regola passava attraverso l’imposizione. La spinta all’autonomia dei figli era avvertita più come risoluzione o fuga dal conflitto che come ricerca d’individuazione. Questo modello di famiglia tradizionale viene oggi chiamato “edipico”.
La famiglia affettiva
La famiglia attuale è diversa. Il modello familiare che sta prendendo piede, quello che lo psichiatra e psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet chiama “famiglia degli affetti” in contrapposizione alla “famiglia delle regole”, è un modello di persone che si trasmettono le norme attraverso l’amore, l’affetto e la spiegazione. I padri che cambiano i pannolini sono più empatici dei loro genitori. I no o le regole non sono imposte, ma sono spiegate e condivise. Si potrebbe dire che siamo diventati “buoni genitori”’, ovvero bravi ascoltatori dei figli. E questo è senz’altro vero.
La genitorialità è decisamente meno casuale, nel senso che le giovani coppie scelgono in maniera più consapevole e i figli nascono all’interno di un progetto pensato e costru-to. Le madri però, e i padri pure, a causa dell’allungamento dei tempi di realizzazione lavorativa, arrivano tardi a scoprire il ruolo genitoriale. Se in Europa l’età media in cui si concepisce il primo figlio è di 25-30 anni, in Italia diventiamo genitori intorno ai 35 anni.
Il bambino Narciso
La nascita diventa un grande traguardo che i genitori attendono e acclamano come se fosse l’evento straordinario della loro vita. Ne consegue che è il bambino a determinare la nascita del sentimento genitoriale e non viceversa. La gioia e la felicità portano i neogenitori a fantasticare e proiettare sul figlio l’aspettativa di un “bambino competente”, ovvero un bambino con capacità precoci e straordinarie. L’iperconsiderazione gli impone la responsabilità enorme di non deludere le aspettative (alte, per di più) negando la possibilità di costruire la sostanza della sua immagine nonché l’identità stessa.
La base per il narcisismo nasce in questo contesto familiare, in cui tutti, genitori e nonni, sono protesi verso il bambino osannato e quasi idolatrato. Il bambino competente sviluppa una grandiosa considerazione di sé, costruisce la sua immagine a partire da quella riflessa dai suoi genitori, proprio come Narciso nel mito si innamora di se stesso specchiandosi nell’acqua.
L’adolescente sovraccarico
Il carico di responsabilità che si trova a gestire il bambino Narciso diventato adolescente, lo espone continuamente al rischio di cadere. A questi bambini non abbiamo dato il tempo di acquisire competenze e capacità pertinenti allo sviluppo, come se fossero pacchi regalo dall’involucro colorato ma dal contenuto incerto.
Come Narciso, anche l’adolescente patisce la sua solitudine: spesso i genitori, pur essendo nella posizione di ascoltare, sono distanti, portati via da ritmi lavorativi intensi che a loro volta creano sensi di colpa placabili elargendo più “sì” che “no”. L’incapacità di reggere una cornice coerente di regole in cui il ragazzo può crescere, determina a sua volta una labilità di confini interni e una tempra poco resistente alle frustrazioni.
“Tutto e subito” diventa il modello interno che non tollera l’attesa, un modello che si adatta alla perfezione a una società estremamente consumistica, dove mercato e media tendono a precocizzare i desideri (a che età è giusto avere il telefonino, la tv in camera, i vestiti firmati, la vacanza-stage?).
Il rischio della crisi
L’onnipotenza del narcisismo porta i ragazzi a credere di essere al centro del mondo, ma non appena il singolo adolescente si scontra con la realtà del limite e delle difficoltà, gli argini non reggono e l’agire prende il sopravvento.
I genitori sono diventati migliori, ma c’è ancora strada da fare. Il primo punto è allentare le proiezioni, cioè ritirare le attese fantastiche e irreali sui ragazzi, considerando quali siano le aspettative dei ragazzi nei nostri confronti, insieme al bisogno di empatia e contatto umano che sembrano reclamare, talvolta paradossalmente attraverso comportamenti aggressivi.
L’adulto competente
Ancora secondo Charmet, i ragazzi cercano l’adulto competente, ovvero un adulto che goda della loro stima (un allenatore sportivo, un insegnante, un capo scout) e che dia loro semplicemente il permesso di sbagliare, perchè nella difficile ricerca dell’autonomia hanno bisogno di essere rincuorati e appoggiati. Si aspettano di essere visti per come sono.
La figura dell’adulto competente non è ricercata tra le mura domestiche, ma all’esterno, perchè è all’esterno che gli adolescenti sono proiettati. All’esterno ci sono i pari e all’esterno si cerca la realizzazione del vero sé.
Per i nuovi adolescenti è difficile sganciarsi dalla famiglia affettiva. È complicato allontanarsi da genitori “tanto buoni”, tanto comprensivi, anche se spesso lontani. La rabbia dei giovanissimi non deriva dal non sentirsi capiti o ascoltati, come nelle generazioni di un tempo, ma proprio dalla difficoltà a sganciarsi dalla famiglia d’origine. Il sentimento della vergogna, più che il senso di colpa, il grande bisogno di contatto umano più che l’isolamento, divengono elementi determinanti la scena educativa moderna. Vergogna e ricerca di contatto sono chiavi preziose per comprendere i nostri ragazzi.
da Giovani Genitori dicembre 2012
a cura della Dr.ssa Teresa Ingarozza
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