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Quel maledetto senso di colpa dei genitori
Riconoscerlo, accoglierlo e liberarsene
In psicologia il senso di colpa è un sentimento umano che, collegato alla colpa, intesa come il risultato di un’azione o di un’omissione che identifica chi è colpevole, reale o presunto, di trasgressioni a regole morali, religiose o giuridiche, si manifesta a chi lo prova come un rimprovero verso sé stessi.
Spesso il senso di colpa è legato all’educazione che abbiamo ricevuto. Più i dettami educativi sono stata rigidi più siamo esposti a sentimenti di colpa e inadeguatezza.
Nella pratica clinica i genitori sembrano essere i maggiori rivelatori di questi stati d’animo che finiscono per danneggiare il rapporto con i propri figli ed il benessere personale. Per comprendere meglio di cosa stiamo parlando diventa fondamentale tracciare un quadro sociale attuale più generale in cui siamo immersi. Da più parti nella psicologia ed in particolare nella psicoanalisi si sottolinea come la nostra società stia vedendo un’inversione di valori a partire dall’’evaporazione del padre’ (Rif. ‘Cosa resta del padre’, M. Recalcati- Cortina Editore- 2011), ovvero un cambiamento epocale della figura paterna, che, da riferimento normativo nella famiglia di un tempo, è divenuto una figura affettiva ed empatica. I papà un tempo non entravano in sala parto, non cambiavano i pannolini ai loro bambini; ora sì. Il padre, da figura spesso assente e delegante, si è trasformato in un complice materno. Colui che gettava basi e regole ora non è più così centrale. Un tempo la legge paterna passava probabilmente attraverso la mediazione materna, con frasi del tipo: “se non la smetti lo dico a tuo padre!”. Oggi parrebbe persino offensivo caricare la figura del padre di una simile autorità incontrastata. I bambini crescono il più delle volte senza la possibilità di confrontarsi con le regole-limite, necessarie a fortificarli interiormente, senza avere la possibilità di imparare a dilatare la richiesta del ‘tutto e subito’. Una volta adolescenti si ritrovano con corpi adulti, anzi, a volte dimostrano anche più della loro età, ma interiormente sono fragili, non riescono ad affrontare le difficoltà proprie della vita. Spesso sentiamo parlare di suicidio in adolescenza come risultato di una incapacità ad affrontare le frustrazioni che la vita inevitabilmente presenta.
Perché tutto ciò?
Oggi si diventa genitori tra i 35 ed i 45 anni; spesso si decide coscientemente di avere dei figli a differenza di un tempo in cui “i figli si facevano perché venivano”. Per certi versi i genitori attuali sono migliori di quelli di ieri, perché più consapevoli del loro ruolo, si interessano maggiormente ai desideri dei loro figli, frequentano corsi per comprenderne di più la loro psiche e sono in una posizione d’ascolto attenta ai loro bisogni.
Nonostante tutto a causa del lavoro che ne determina l’assenza, madri e padri sono fuori casa per molto tempo della giornata e quel bambino, tanto desiderato, tanto programmato, percepito come già competente alla nascita, è lasciato solo, lasciato in compagnia di tv e cellulari, a crescere nel pre e post scuola e/o nei casi migliori con i nonni.
Naturalmente tutto ciò non sfugge ai genitori che sanno di lasciare solo il bambino e per questo ‘si sentono profondamente in colpa’. Quindi per mettere a tacere il sentimento di inadeguatezza che ne deriva mettono in atto comportamenti ‘riparatori’ cercando di riempire il vuoto della loro assenza con cose, oggetti, giocattoli, tablet o quant’altro venga dalle richieste insistenti dei bambini. La situazione peggiora nel caso di separazione. Il bambino non viene più abituato ad aspettare, ma viene gratificato spesso ancora prima che possa sentire nascere il desiderio. L’oggetto consumistico è diventato un vero e proprio sostituto genitoriale, ma nonostante l’atteggiamento riparatorio, mamma e papà non hanno mai la sensazione di avere fatto veramente bene, perché per quanti sforzi ‘concreti’ facciano nel riempire quel vuoto, non riescono nel profondo a sentirsi soddisfatti. La gratificazione che vedono impressa sul volto del loro bambino è fugace, momentanea, dura quel tanto per ricominciare subito dopo a chiedere qualcos’altro. Questo ci indica che il vuoto che si tenta di colmare non è materiale ma squisitamente affettivo.
Inoltre può capitare che ci sia troppo scarto tra l’ ‘immagine ideale’ genitoriale (“vorrei essere un genitore così”) e quella ‘reale’ (“sono un genitore così”); quanto più è ampio lo scarto tanto più grande è la possibilità di incorrere nei sentimenti di colpa e di inadeguatezza.
Come fare allora? Come venirne fuori? Le madri devono lasciare il posto di lavoro tanto desiderato e cercato? Devono rinunciare alla conquista di un’autonomia così tanto faticosamente conquistata?
Non penso proprio che la rinuncia possa lenire i sensi di colpa, anzi, il rinunciare e il sentimento di perdita forzata che ne deriverebbe potrebbe determinare una rabbia profonda nei confronti di sè e del proprio bambino. A quel punto ‘per colpa di nostro figlio ho dovuto lasciare…’non sembra essere il percorso consigliabile. Forse meglio prendere consapevolezza dell’importanza del tempo da dedicare al piccolo in modo esclusivo: giocare insieme, fare una passeggiata nel bosco, ascoltare insieme la musica e quando sono più grandi fermarsi a parlare delle loro cose, guardare video con loro cogliendo quel momento per confrontarsi su temi di loro interesse.
Allo stesso tempo è bene sapere che i confini dettati da poche ma chiare regole contengono ed il bambino come l’adolescente ne hanno bisogno come una bussola interna. Oggi i ragazzi non hanno più i punti di riferimento di un tempo, spesso non c’è la chiesa o altro credo religioso, non c’è l’oratorio, si delega tutto alla scuola che stenta a svecchiarsi e si ritrova impreparata a gestire problematiche che solo la famiglia ha la reale possibilità di recuperare e affrontare. Il modo migliore per intervenire nell’educazione dei nostri figli è la consapevolezza del ruolo genitoriale in prima battuta, l’abbattimento dei sensi di colpa e la sicurezza che l’attesa di fronte ad un desiderio non può fare altro che fortificare nostro figlio. Non importa se non è più il papà a ‘dettare la legge’, ma è necessario che qualcuno lo faccia.